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Stai sfogliando il n.85 Settembre / Ottobre
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Legge elettorale e popolarismo |
Data di pubblicazione: Sabato, 7 Ottobre 2017
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Politica e società
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Amaro destino quello della legge elettorale nel nostro Paese. Il tentativo degasperiano del 1953 di consolidare una maggioranza che sarebbe comunque stata espressa dalle urne, non portò bene allo statista trentino che dall’esito negativo di quella vicenda iniziò il suo declino politico. Un anno dopo, al Congresso di Napoli del giugno del 1954, ricordò che essa era stata pensata per un “collegamento tra i partiti democratici”, con la “più che giustificata… preoccupazione di consolidare la democrazia parlamentare”. I tentativi che si sono verificati negli ultimi ventiquattro anni, dal “Mattarellum” del 1993 all’“Italicum” del 2016, hanno incontrato alterna fortuna, tra modifiche parlamentari a colpi di stretta maggioranza e bocciature della Consulta, ma soprattutto non sono riusciti ad ottenere quell’intento che fu di De Gasperi. Anzi, in questi stessi anni, complici proprio le regole elettorali, è entrata in crisi quella rappresentanza parlamentare - si pensi solo alle centinaia di deputati e senatori che hanno cambiato gruppo - che costituisce l’elemento necessario della democrazia parlamentare. Soprattutto in questi anni è venuta meno la ragione che aveva animato la proposta del 1953. Il dibattito ha messo in evidenza che la legge elettorale è stata, di fatto, chiamata a surrogare una incapacità dei partiti a formare stabili alleanze, offrendo, invece, la via “facile” di premiare minoranze elettorali, a volte anche in modo abnorme, per renderle maggioranze di governo. Le convenienze di parte, in relazione alle diverse previsioni delle leggi, sono emerse spesso come la vera motivazione dell’adesione o meno alle varie proposte che si sono succedute e, a volte, approvate. L’ultima fase, incompiuta, mostra ancora qualcosa di più. Per qualche mese abbiamo assistito a una rinuncia da parte dei legislatori ad esercitare la prerogativa parlamentare di approvazione di un provvedimento che, accogliendo le indicazioni della Consulta, ne rendesse omogenei e organici i testi per le due Camere, oppure che ne prevedesse una nuova formulazione generale. La commissione affari costituzionali della Camera si è trovata in un’impasse perché il maggior partito, il PD, per bocca del suo Segretario, aveva ripetutamente dichiarato che l’accordo, per intervenire legislativamente, doveva essere generale, comprensivo cioè dell’adesione del M5Stelle, di una forza politica che agisce in base ad una autoreferenzialità e ad un tatticismo che impediscono, oggettivamente, di stabilire patti duraturi. La proposta uscita dagli onorevoli Rosato e Fiano, che un intelligente commentatore come Marcello Sorgi su La Stampa definisce un “bluff” destinato a provocare “reazioni calcolate per poi archiviare”, rappresenta un compromesso di basso profilo perché non risolve i problemi né della rappresentanza e neppure di una governabilità, in quanto impedisce le scelte degli elettori in due terzi dei collegi, obbligando, peraltro, a candidature uniche in un terzo, senza favorire il comporsi di maggioranze. Altri aspetti ne sconsigliano l’approvazione, in quanto finalizzati ad interessi politici immediati: stringere all’angolo la sinistra (Pisapia e Mdp), una bassa soglia per far convergere il partito di Alfano e ipotizzare un accordo - di ispirazione renziana - tra PD e Forza Italia. Il modesto tatticismo della proposta servirebbe soltanto ad una apparente uscita del PD dall’angolo della impotenza politica nel quale era stato rinserrato dagli errori del suo leader. Nei giorni scorsi, addirittura, si era auspicato che fosse la stessa Corte Costituzionale a mettere mano alla legge per rendere i testi omogenei. A fronte di questo passaggio difficile, ma anche indispensabile, è doveroso contribuire ad indicare ciò che può aiutare il Parlamento ad approvare una legge elettorale che non risponda ad esigenze di tattica politica o di mera ingegneria elettorale ma che, in definitiva, rifletta la necessità di un’esigenza civile e sociale di rappresentanza e di democrazia partecipativa, di espressione della sovranità popolare, uno dei principi ispiratori della Costituzione. Una legge che sia finalizzata a corrispondere ad un interesse generale e al senso di responsabilità del Parlamento di fronte al Paese. Ma precisiamo ancora di più. Senza che le forze politiche ritrovino le ragioni fondanti, i principi, i valori e le radici culturali, sarà difficile ricostruire una politica realmente rappresentativa. Da parte dei cattolici lo spazio è quello del popolarismo sul quale si è costruita in Italia l’esperienza del Centro. Qualche segnale positivo si palesa nel riavvicinamento di Forza Italia al PPE. Ancor più positiva sarebbe l’aggregazione in un soggetto politico chiaramente europeista e federalista e che riconosca il valore dell’economia sociale di mercato e delle sue radici nella Dottrina sociale della Chiesa. La politica italiana ha, infatti, bisogno di rientrare nell’orizzonte europeo, non solo confermando gli impegni unitari, ma anche nella direzione di quelle culture politiche, traumaticamente scomparse, che hanno costruito l’Europa, allontanando gli sterili e pericolosi nazionalismi e rifiutando il totalitarismo globalista, rilanciando il disegno di Papa Giovanni Paolo II, cioè la “casa comune europea”: un grande spazio di pace e di sviluppo, capace di offrire ancora il primato dell’umanesimo cristiano.
Pietro Giubilo |
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