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Stai sfogliando il n.82 Gennaio / Febbraio 2017
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La sentenza della Consulta e l’Italicum |
Data di pubblicazione: Venerdì, 3 Febbraio 2017
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Rappresentare con giusta proporzione l’Italia reale
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La ragione che ha indotto la Consulta a dichiarare incostituzionali alcuni elementi dell’Italicum, così come aveva deciso per le precedenti regole elettorali, sta nel fatto che queste normative non rispettavano il principio di rappresentanza, così come indicato dal modello politico scritto dalla Carta del 1947. Oltre all’aver disinnescato il gioco delle opzioni dei capilista – relegandolo alla sorte – infatti, l’annullamento del ballottaggio, a cui si sarebbe sicuramente dovuto ricorrere, ha ridotto a pura ipotesi quel “salto” maggioritario che rappresentava, invece, il cuore della legge imposta con la fiducia dal governo Renzi ad un Parlamento diviso. Rigettando la norma che prevedeva il ballottaggio, nel caso di non raggiungimento del 40% da parte di una forza politica, la sentenza ha respinto la motivazione sbandierata dai sostenitori della legge di voler favorire la governabilità (“sapere la sera delle elezioni chi ha vinto e quindi sarà chiamato a formare il governo”). Tale giustificazione non è stata ritenuta sufficiente a distorcere la corretta rappresentanza dei cittadini. Quello che la sentenza ha di fatto stabilito e confermato è che debba esserci un giusto rapporto, una corretta proporzione, tra il voto dei cittadini e la rappresentanza parlamentare e che tale elemento non possa essere stravolto. Il suo corollario è che le maggioranze parlamentari a sostegno dei governi devono formarsi sulla base di numeri che trovino il loro fondamento nel voto dei cittadini e non nei meccanismi di attribuzione dei seggi. Che debbano essere stati i giudici con le loro sentenze, e non la politica, a difendere la rappresentanza spiega innanzitutto l’inadeguatezza, la “triste realtà” della politica italiana. Questa alterazione istituzionale è tra le ragioni che segnalano la difficoltà del Paese a ritrovare una via di uscita definitiva dalla lunga transizione, inaugurata con la fine della prima Repubblica, non a caso operata dagli interventi della magistratura. Troppe poche voci oggi esaminano la questione delle riforme nel loro aspetto più proprio e, cioè, del favorire una matura democrazia rappresentativa e partecipativa. Ed è la vera ragione che ha condotto il centrosinistra a perdere la battaglia referendaria. Tutta la cultura costituzionale – nella quale era protagonista il giusnaturalismo cattolico – aveva dimostrato che la governabilità veniva assicurata nella misura in cui si rispettava la rappresentanza e che questa aveva come presupposto l’attenzione e la partecipazione dei cittadini nelle modalità più varie: partitiche, sindacali, associative, dei corpi intermedi e così via. Non a caso questa governabilità priva di tali presupposti che si è tentato, più volte nell’ultimo ventennio, di impiantare nelle nostre istituzioni, si è accompagnata all’emarginazione dell’altro elemento caratterizzante la cultura istituzionale cattolica, cioè la sussidiarietà. E, proprio osservando ciò che sta accadendo in Italia, dobbiamo comprendere che cosa possa significare l’emarginazione di questo importante principio sul quale si è costruita la storia più significativa del nostro Paese. Anche i tragici fatti di questi giorni dimostrano che il tessuto sociale di base, presente nelle comunità territoriali, è valido; che la diffusa rete delle piccole e medie imprese presenta una volontà di impegno che neppure le calamità naturali riescono a piegare; che i valori di riferimento che animano i corpi sociali intermedi familiari, associativi, di volontariato, sono la vera grande risorsa del Paese su cui si può sempre contare. In parole brevi: c’è ancora, nonostante le crisi economiche, un’Italia diffusa, capace di lavorare e di dare solidarietà e che non può più trovare nelle istituzioni solo barriere burocratiche e fuga dalle responsabilità. Ora, per dirla tutta, questa Italia deve tornare ad essere e sentirsi rappresentata nelle istituzioni più importanti, cioè quelle legislative, e per far ciò la politica deve nuovamente calarsi nella realtà, raccoglierla e rappresentarla con giusta proporzione. Tutto ciò porta a ritenere necessario che qualsiasi intervento che riguardi le istituzioni o le norme elettorali che, non dimentichiamolo, sono di rango costituzionale, deve partire dal presupposto rappresentativo. La direzione politica che si apre dopo la sentenza della Corte Costituzionale è chiara e indica la strada di norme elettorali a base proporzionale; riaffidando ai cittadini la scelta di chi lo rappresenti, senza l’automatismo di premi di maggioranza che, per la frammentazione esistente, andrebbero a rafforzare artificiosamente forze politiche di limitata adesione. La Consulta ha chiarito che sono ammissibili solo per elevati livelli di consenso, cioè per i grandi numeri, unici in grado di assicurare governabilità. Dopo il fallimento del tentativo di sottrarre rappresentanza con la riforma costituzionale bocciata dalla volontà popolare, occorre operare nella direzione giusta, con il tempo necessario, senza forzature, né scorciatoie. Alle forze politiche presenti in Parlamento spetta il compito non lieve, né inestricabile, di armonizzare il più possibile le regole di Camera e Senato, evitando calcoli di parte. Non è il tempo delle furberie, né quello delle rivincite. E’ il tempo della ricostruzione della rappresentanza. |
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